TU ED IO: NEURONI ALLO SPECCHIO
Come scrisse il filosofo greco Aristotele “l’uomo è un animale sociale”: tende per natura ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi in società.
L’aspirazione a vivere in unione con gli altri, infatti, ha radici profonde nella specie umana e costituisce il movente del nostro comportamento fin dalla nascita, basti pensare al legame simbiotico che il neonato crea con la madre. Ma il bisogno umano di unità si manifesta in molti modi: il legame con la propria tribù o famiglia, con la nazione, la classe, le confraternite religiose, l’attaccamento al proprio idolo o al gruppo di pari nell’adolescenza...
Di recente, a fornire un ulteriore contributo a tali evidenze ci ha pensato anche la scienza: l’equipe di un neuroscienziato italiano, prof. Giacomo Rizzolatti, infatti, ha scoperto il meccanismo neurofisiologico che dà forza a tutte quelle concezioni che collocano la base per la costruzione dell’identità nel rapporto con l’altro. Esisterebbe secondo questi studiosi un insieme di cellule cerebrali chiamate neuroni specchio, che si attivano sia quando vengono eseguite azioni finalizzate a uno scopo sia quando si osservano le stesse azioni eseguite da altri.
Ovvero, ciò vuol dire che se io possiedo l’esperienza dell’afferrare un oggetto, posso comprendere cosa vuol dire afferrare per l’altro. Stando a ciò che abbiamo appreso dai neuroscienziati, quindi, la comprensione umana delle azioni altrui si fonderebbe sulla capacità (fisiologica e cognitiva) di individuare nell’altro delle somiglianze con il nostro modo di essere che rendono la sua alterità qualcosa di “familiare”. E ciò accade sia per le azioni sia per le emozioni. Se io provo dolore o vedo una persona sottoposta a stimolo doloroso, il mio cervello registra le due sensazioni nello stesso identico modo attivando gli stessi neuroni. Esiste, pertanto, un substrato neurofisiologico per spiegare quel fenomeno conosciuto e descritto dagli psicologi come empatia, ossia la capacità di “mettersi nei panni dell’altro”, di instaurare un contatto con l’altro e di coglierne le similitudini con noi, che ci permette di solidarizzare e attuare azioni altruistiche, soprattutto in situazioni di gravi disagi come per esempio avviene in caso di calamità naturali. Ma, se è vero che siamo biologicamente predisposti a ricercare la vicinanza con l’altro, se anche la scienza conferma che abbiamo il germe dell’amore e della felicità già inscritto nella nostra biologia, come si spiega l’odierno dilagare di atteggiamenti razziali, antisociali, violenza, indifferenza, insensibilità e disprezzo???
Gli studiosi hanno provato a dare una risposta anche a questo! Ci sono situazioni in cui il sistema dei neuroni specchio è completamente danneggiato, come nella patologia autistica, caratterizzata proprio da una incapacità di entrare in contatto con l’altro e di comprenderlo. Più difficile da spiegare è, invece, la grande variabilità che riguarda le differenze individuali nelle capacità empatiche a fronte di un sistema neuronale intatto e perfettamente funzionante. A tal riguardo, le possibilità sembrano essere molteplici e rimandare ai fenomeni classicamente studiati dalla psicologia sociale. Stereotipi, schemi, difese e l’aver vissuto gravi carenze di empatia da parte dei genitori interferirebbero con l’attivazione dei neuroni specchio o limiterebbero l’accesso agli stimoli generati da tali neuroni e, dunque, a riflettere su di essi. In questo modo, causerebbero distorsioni nella comprensione degli altri, la formazione di pregiudizi e, quindi, la discriminazione dell’altro, che viene “sentito” come diverso da sé, riconosciuto come estraneo, non appartenente al proprio gruppo.
Quali azioni intraprendere, dunque, per ritornare alla naturalezza del gesto reciproco? Come spogliarci di tutto ciò che impedisce il nostro movimento spontaneo permettendogli di attualizzarsi nella relazione?
Lo stesso Rizzolatti afferma: “Se non c’è rapporto, non c’è felicità. Per essere felici è indispensabile una relazione empatica.”
La scoperta dei neuroni specchio ancora una volta ci conferma che ciò che viene dalla natura è la via maestra. A noi resta il compito umile ma arduo di non snaturarci, rafforzando questo meccanismo innato per ridurre gli effetti delle distorsioni, che pur sempre esistono e ci condizionano. Solo una buona educazione socio-affettiva, che stimoli nuovi modi di relazione e favorisca nuove esperienze da assimilare o sostituire ai vecchi schemi appresi, può consolidare la capacità di riconoscere nell’alterità qualcosa di simile a noi e di instaurare, in virtù di questa somiglianza, un contatto possibile.
La soluzione è quella che ci spinge ad attuare una sorta di insegnamento al contrario, guardando cioè al nostro passato, ovvero osservando i nostri bambini e riappropriandoci della nostra spontaneità.
Dott.ssa Stefania Grisi