IL GRUPPO, IERI ED OGGI
“Uh, che bello!”, “Anch’io avrei voluto studiare psicologia!”, “Quanta gente avrebbe bisogno dello psicologo oggigiorno!”... questo il genere di frasi che molto spesso, per non dire sempre, mi sento rivolgere ogni qualvolta il mio interlocutore viene a conoscenza di ciò di cui mi occupo per professione.
Quanto interesse suscita la scienza dell’anima, come veniva definita un tempo!
Sembrerebbe quasi che dello psicologo non se ne possa più fare a meno, lo si trova ormai dappertutto, non più solo in ambito sanitario, ma a
nche in azienda, a scuola, in tribunale, sui
giornali… persino in televisione! Leggevo pochi giorni fa sul Corriere della Sera di un esperimento attuato presso alcune farmacie di Milano con l’istituzione dello “psicologo di quartiere”. Le consulenze gratuite hanno incontrato il gradimento dei cittadini, tant’è che il servizio ha dovuto prevedere in alcuni esercizi il raddoppio delle ore previste. Per quanto riguarda le condizioni di disagio che hanno spinto a richiedere un consulto spiccano al primo posto le problematiche familiari, seguite da sintomatologie ansiose e depressive, spesso legate al lavoro.
A questo punto è lecito domandarsi… Ma cosa ci sta accadendo? Stiamo diventando tutti matti oppure è esattamente il contrario? Non è che magari tutto questo interesse per la scienza in questione è dettato da un desiderio di verità?!?
Dopo tanto progresso, il lungo e complesso percorso di evoluzione e civilizzazione umana, dovrebbe forse rallentare un po’, per consentire di lanciare uno sguardo al passato, a ciò che eravamo…
Molti esperti, già a partire dagli anni ’80, evidenziano una progressiva perdita del senso di comunità nel mondo occidentale, il tessuto sociale si è andato via via sfaldando e la vita è diventata più stressante, impegnata in una corsa all’autonomia e alla competizione. Tutto ciò ha contribuito a far sparire i cosiddetti “sostegni informali” che, in passato funzionavano da protettori sociali, e che oggigiorno si possono ancora trovare (sebbene anche qui in minima parte ormai!) nei paesi e nelle piccole comunità. Chi di voi non ha la fortuna di avere origini provinciali può provare ad ascoltare gli anziani, la saggezza del nostro passato ancora vivente, e probabilmente si meraviglierà di ascoltare racconti infarciti di giornate flemmatiche, caratterizzate dalla percezione di una temporalità più rallentata, scandite sì dal faticoso lavorare nei campi, ma anche lenita dall’unione e dal sostegno di una rete di rapporti fatta di collaborazione spontanea e di reciproco aiuto. Relazioni con il vicinato salde e continuative, che favorivano lo sviluppo di un senso di straordinaria tranquillità e aiutava le persone a non sentirsi alienate e sole nei momenti di difficoltà.
Del resto, anche la psicobiologia e le neuroscienze hanno messo in evidenza le importanti connessioni tra mente, cervello e relazioni umane. La mente sarebbe un’intermediaria tra biologico e sociale, si svilupperebbe cioè all’interno di un complesso sistema neuropsicosociale, situandosi esattamente a metà strada tra cervello e relazioni.
Quindi se è vero che il cervello si evolve e si modifica nelle relazioni, si spiega facilmente come, in questo mondo di isolamento emotivo e di rapporti conflittuali, si avverta, inesorabile, il bisogno di ri-trovare la pace… e dove se non all’interno di un’altra relazione, questa volta edificata sul sostegno e la cura, adatta quindi a fornire risposte adeguate ai bisogni emergenti?!? Laddove una relazione ferisce, solo un’altra relazione può medicare!
Ed è proprio in quest’ottica che si sviluppa la filosofia dei gruppi d’incontro e sostegno psicologico, cioè delle vere e proprie microsocietà in cui si ripresentano i ruoli e le dinamiche che le persone agiscono all’esterno, nella loro famiglia, in ambito lavorativo etc... Il gruppo con le sue caratteristiche favorisce lo sviluppo di relazioni significative e legami identificativi di grande potere curativo. È in questo ambiente protetto e attraverso il senso di coesione, di appartenenza e di fiducia che in esso si sviluppano, che i partecipanti possono sperimentare i propri modi di relazionarsi con gli altri e decidere se accettarli o cambiarli in favore di altre modalità più funzionali al proprio benessere.