La Prevenzione Del Burn-out in Oncologia
L’esperienza di un gruppo di sostegno per l’equipe del reparto
Pubblicato sulla rivista semestrale INTEGRAZIONE: nelle Psicoterapie e nel Counseling, Edizioni scientifiche ASPIC – numero 23/24 del 2008
Introduzione
Il mondo del lavoro è cambiato ed è in continua evoluzione. All’individuo vengono richieste competenze sempre maggiori, flessibilità e capacità di adattamento. Ciò ha comportato inevitabilmente una modificazione della visione aziendale, che implichi la compartecipazione attiva dei due protagonisti, l’Azienda e l’Individuo, nell’interesse comune di raggiungere obiettivi specifici.
Tali obiettivi, però, non sempre coincidono, né tanto meno gli interessi e le motivazioni convergono sugli obiettivi comuni, causando una condizione di sofferenza che danneggia aziende e persone (Pellegrino, 2004). Ciò perché, da un lato, il lavoro è diventato un obbligo più che una risorsa ed è maggiormente orientato a risultati economici, piuttosto che a fornire prodotti o servizi eccellenti. I fornitori di assistenza sanitaria delle aziende ospedaliere pubbliche si sentono frustrati dalle politiche di aziendalizzazione delle cure, si sentono sempre più oppressi da richieste di lavoro eccessive rispetto ai riconoscimenti economici e vittime di un sistema incapace di pianificare e organizzare le attività.
D’altra parte, occorre aggiungere che vi possono essere individui particolarmente vulnerabili, fragili, sensibili ai cambiamenti e scarsamente capaci di rispondere in maniera adeguata a
stimolazioni nuove, perché non competenti o poco motivati. O al contrario, possono esistere persone brillanti, capaci e fortemente motivate che si sentono strette in aziende chiuse, poco competitive, incapaci di cogliere le novità o con inadeguata propensione allo sviluppo e alla crescita dell’azienda stessa.
In conclusione, dunque, situazioni divergenti e posizioni contrapposte tra azienda e individuo forniscono un terreno fertile per lo sviluppo di quadri psicopatologici legati allo stress lavorativo con inevitabili conseguenze negative per entrambi.
Si tratta di quadri clinici complessi, difficili anche da classificare perché facenti parte di un’area nuova e non ancora sufficientemente esplorata, che nel Piano Sanitario Nazionale viene indicata come area delle “patologie da rischi emergenti”, in cui si fa riferimento a patologie derivanti da rischi psicosociali connessi all’organizzazione del lavoro o altrimenti dette “patologie da costrittività organizzativa”. Tra queste, quella che sta ormai raggiungendo proporzioni epidemiche tra i lavoratori dei Paesi occidentali a tecnologia avanzata è la sindrome del Burn-out, o da esaurimento emotivo, che può presentarsi in soggetti che operano in particolare nell’ambito delle professioni d’aiuto, ovvero quelle in cui il carico emotivo dell’attività professionale, rapportato alla tipologia dell’utenza, appare più rilevante rispetto ad altre: medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, terapisti della riabilitazione…
I costi emotivi e finanziari del burn-out sono notevoli non solo per l’individuo ma anche per le organizzazioni. Pertanto, una risposta efficace al burn-out oggi deve comprendere non solo il rimedio, ma anche e soprattutto la prevenzione da parte dell’azienda, che deve necessariamente prestare maggiore attenzione alla gestione delle risorse umane, focalizzandosi sulla promozione positiva dell’impegno nel lavoro piuttosto che sulla riduzione delle conseguenze negative della sindrome e sulla promozione dei valori umani nel luogo di lavoro, non solo dei valori economici.
Particolarmente sensibile a tale problematica e certo dell’importanza, se non addirittura dell’indispensabilità, di un approccio preventivo è il primario del reparto di oncologia dell’ospedale G. Da Procida di Salerno, che ha richiesto esplicitamente di potersi avvalere della collaborazione di uno psicologo per un intervento di sostegno psicologico a vantaggio di tutta la sua equipe.
L’esperienza è stata per me importantissima. Il lavorare fianco a fianco di questi professionisti seri e veramente appassionati del proprio lavoro, che intendono la cura nel suo senso più vero e pieno, cioè come un preoccuparsi dell’altro e un prendersi veramente cura del malato, mi ha donato una grande occasione di crescita e trasmesso il valore di una responsabilità esistenziale, prima ancora che professionale.
Il valore e la competenza di questo gruppo di lavoro, che lascia una traccia indelebile nei cuori di tutti coloro che assiste e cura, come testimoniano le numerosissime espressioni e manifestazioni di gratitudine che gli giungono giorno dopo giorno, mi hanno spinto a lasciare una, seppur modesta, traccia scritta di quanto di buono esiste in un’Italia meridionale ancora così poco apprezzata e che continua a lottare nonostante le mille difficoltà di una sanità locale fortemente ammalata e afflitta da debiti e pessime dirigenze.
Il Fenomeno “Burn-Out”
Il primo ad utilizzare questo termine è stato Freudenberger nel 1974, mutuandolo dal gergo sportivo, dove veniva impiegato, fin dagli anni Trenta, per indicare la condizione di quegli atleti che, dopo un periodo di successi, entravano improvvisamente in crisi e non riuscivano a dare più nulla dal punto di vista agonistico; oggi è utilizzato anche dagli astronomi per indicare l’esaurimento di una stella, la sua morte per completa combustione. Non esistendo una traduzione italiana del tutto convincente (alcuni autori suggeriscono “bruciato”, altri “scoppiato”, “fuso” o “usurato”, “cortocircuitato” ovvero sfinito, esaurito) si preferisce utilizzare il termine anglosassone anche in ambito psicologico per identificare un particolare quadro sintomatologico, osservato sempre più frequentemente in operatori sociali particolarmente esposti allo stress di un rapporto diretto e continuativo con un’utenza fortemente disagiata, caratterizzato da un rapido decadimento delle risorse psicofisiche ed un altrettanto rapido peggioramento delle prestazioni professionali.
In definitiva, il burn-out può essere descritto quale sindrome da esaurimento emotivo, di depersonalizzazione e di ridotta realizzazione personale, legata all’attività lavorativa, che porta al disagio psichico, alla sensazione di essere sopraffatti e di perdere il controllo della situazione, i cui sintomi si esprimono a livello cognitivo, emotivo, comportamentale e somatico.
I sintomi psichici (cognitivo-emozionali) sono quelli principali. Investono sia la sfera cognitiva, sia quella emotiva. Nel suo lavoro del 1982, rimasto il testo di riferimento sui sintomi del burn-out, Christina Maslach descrive tre gruppi di sintomi: esaurimento emotivo (apatia, demoralizzazione, difficoltà di concentrazione, irritabilità, preoccupazioni o paure eccessive o immotivate, senso di inadeguatezza, sensi di colpa), depersonalizzazione dell’utente (distacco emotivo, cinismo, disinteresse oppure ostilità e rifiuto verso gli utenti, rigidità nell’imporre o applicare norme e regole) e ridotta realizzazione professionale (caduta dell’autostima, senso di frustrazione ed impotenza). Ai sintomi inclusi in queste tre categorie, Folgheraiter aggiunge quelli descrivibili globalmente come perdita di controllo (l’operatore sente il lavoro “invasivo”; non riesce a “staccare” mentalmente…).
Tra i sintomi comportamentali del burn-out si possono evidenziare alcuni o molti tra i seguenti (Cherniss, 1983): assenteismo; “fuga dalla relazione” (trascorrere più tempo del necessario al telefono, cercare scuse per uscire o svolgere attività che non richiedano interazioni con utenti e
colleghi); progressivo ritiro dalla realtà lavorativa (“disinvestimento”); perdita dell’autocontrollo (reazioni emotive violente, impulsive, verso utenti e/o colleghi).
Secondo alcuni autori, la sindrome di burn-out provoca o, più spesso, aggrava alcuni o molti tra i seguenti disturbi psicosomatici (Bernstein, Halaszyn 1989; Cherniss 1983): disfunzioni gastrointestinali (gastrite, ulcera, colite, stitichezza, diarrea); disfunzioni a carico del SNC (astenia, cefalea, emicrania); disfunzioni sessuali; malattie della pelle; allergie e asma; disturbi del sonno.
Tutti gli autori che si sono occupati dell’argomento concordano nel ritenere che la sindrome deve essere considerata più un processo che un evento e che si sviluppa secondo un andamento fasico. Più nello specifico, tutto inizia da una situazione di sovraccarico, ossia di forte divario tra richieste e risorse disponibili, causa di uno stress cronico, che, incrementato dal continuo contatto con la gente, porta la persona a sentirsi prosciugata, esausta, incapace di rilassarsi e di recuperare energie. Successivamente l’operatore reagisce con atteggiamenti distaccati e sempre più burocratici al fine di non farsi coinvolgere ulteriormente. Diventa cinico, riduce al minimo il proprio coinvolgimento e abbandona persino i propri ideali. La disaffezione rappresenta il tentativo di proteggersi dall’esaurimento e dalla delusione. La Maslach definisce questa la fase della spersonalizzazione. Infine, emerge, nella fase conclusiva, la sensazione di ridotta realizzazione professionale, accompagnata da una diminuzione della motivazione al successo e un abbassamento del livello di autostima. La persona si sente inefficiente, cresce il senso di inadeguatezza e perde fiducia in se stessa. In questa fase possono comparire anche sintomi psicodepressivi.
Il burn-out in oncologia
L’eziologia del disturbo sostiene che non esiste una sola causa; ormai la multidimensionalità della sindrome è ampiamente riconosciuta da quanti si occupano del problema. Occorre pensare al burn-out come l’epilogo di complesse vicende personali e lavorative, rispetto sia alla struttura organizzativa sia alla specificità della professione svolta. Vanno, pertanto, considerate sia le componenti oggettive, gli stimoli provenienti dall’ambiente esterno, sia quelle soggettive, ossia la valutazione cognitiva e l’interpretazione individuale di tali stimoli.
Nel mettere in evidenza le cause del burn-out, perciò, occorre distinguere tre generi di fattori: Individuali (tratti di personalità, aspettative professionali e stress non professionale), Lavorativi (intrinseci al servizio, relativi alla carriera, al rapporto con utenti e colleghi) e Sociali (perdita progressiva del senso di comunità, sfaldamento del tessuto sociale, perdita del sostegno di una rete sociale, autorealizzazione e individualismo).
Dalle numerose ricerche effettuate, il campo oncologico, per le caratteristiche che gli sono proprie, risulta essere un’area della medicina ad elevato investimento psichico e coloro che lavorano in questo campo sono ad alto rischio burn-out, in quanto esposti ad alti livelli di stress che, in alcuni casi, possono compromettere la necessaria umanità e sensibilità verso i pazienti.
Vediamo, dunque, cosa evidenziano le ricerche a riguardo.
L’ospedale è un contesto fortemente emozionale in cui i medici devono imparare a far fronte non solo alle emozioni dei pazienti, ma anche alle proprie, inevitabilmente innescate dal contatto quotidiano con la sofferenza degli altri, ai propri sentimenti di impotenza e sconfitta di fronte agli insuccessi terapeutici, alla propria angoscia di morte. Comunicare una diagnosi di cancro, aumentare la compliance, aiutare i familiari ad essere un supporto per il malato e rispondere al bisogno di una cura globale, che il paziente oncologico comporta più di altri, richiedono al medico e all’infermiere una conoscenza generale delle dinamiche psicologiche e una capacità di gestire le relazioni cui non sempre sono preparati.
Tra le malattie gravi e invalidanti, il cancro è la più temuta. Nonostante le possibilità terapeutiche siano aumentate, il cancro viene vissuto come una malattia inguaribile che non è facile prevenire. Viene associato all’idea di sofferenza e morte. Alle altre patologie non è legata l’immagine di ineluttabilità evocata dalla malattia neoplastica, che condiziona, in maniera tacita o esplicita, la psiche, creando una forzata convivenza con l’idea della propria mortalità. Il pensiero della propria morte colpisce profondamente tutti gli esseri umani, che, nella vita quotidiana, per sopravvivere, tendono a negare. Il cancro espone non solo il paziente e i suoi familiari, ma anche il personale curante all’impatto con il problema della propria fine.
La tendenza a negare la forte angoscia di morte che si prova contribuisce a creare quell’immagine professionale, che fa della lotta contro la morte il fulcro dell’attività del medico e che viene messa in pericolo ogni volta che questa lotta minaccia di fallire.
Il decorso in genere prolungato sottopone a grande stress i pazienti, i loro familiari, i medici e il personale sanitario. Le storie di vita e le esperienze personali dei curanti possono essere rievocate dalle vicende dei pazienti, riportando ricordi spiacevoli e sentimenti irrisolti. Questi possono sollevare forti timori ed ansie, rendendo il lavoro clinico più stressante. Inoltre, i pesanti effetti collaterali dei trattamenti chirurgici, chemioterapici e radianti (nausea, vomito, mutilazioni fisiche, alopecia) non possono lasciare indifferenti chi li somministra.
Il doversi confrontare con un malato grave, che nonostante i massicci interventi terapeutici continua a peggiorare, o con un paziente moribondo può far scattare, nel medico o altro personale socio-sanitario, reazioni di difesa di cui il malato può diventare vittima. Spesso gli operatori sono del tutto inconsapevoli degli atteggiamenti di difesa che sviluppano verso i malati di cancro oppure ne danno motivazioni fittizie: la mancanza di tempo, il timore di danneggiare o disturbare il paziente nel suo intimo processo di elaborazione sono le razionalizzazioni ricorrenti di un atteggiamento che evita il confronto con il malato. Comportamenti quali risposte evasive alla richiesta di dialogo da parte dei malati, freddezza e cinismo nella relazione sono strategie che il medico inconsciamente mette in atto per difendersi dall’eccessivo coinvolgimento emotivo.
In questo contesto, la sindrome del burn-out rappresenta la reazione difensiva a condizioni di lavoro eccessivamente stressanti ed è caratterizzata da uno stato di esaurimento emotivo, un senso di ridotta realizzazione personale un deterioramento nella relazione con i pazienti.
È estremamente frustrante per l’oncologo rendersi conto di non essere onnipotente. Gli eventuali sentimenti di rabbia o di colpa sono comprensibili, ma, nello stesso tempo, irrazionali perché esistono situazioni cui non è possibile far fronte. Sarebbe opportuno, quindi, che l’oncologo fosse consapevole delle sue reazioni di difesa eccessivamente rigide, per riconoscerle e gestirle adeguatamente, in modo da facilitare la relazione medico-paziente.
La prevenzione
Nel tentativo di definire le strategie di prevenzione del burn-out c’è un paradosso di fondo: a fronte di tanta evidenza, le iniziative volte a ridimensionare il fenomeno appaiono tuttora scarse e inconsistenti.
Si è, infatti, concordi sull’entità del fenomeno, sulla necessità di contenerlo e prevenirlo, sulle conseguenze negative che comporta per l’utenza e per l’organizzazione, sull’importanza di favorire la gestione ottimale delle risorse umane, ma si fa ben poco sul piano applicativo e risultano ancora occasionali i progetti operativi in tal senso.
Si presta scarsa attenzione alla formazione del personale, al suo inserimento nella realtà lavorativa, al monitoraggio dell’attività. Risultano ancora inadeguate o addirittura inesistenti le risorse economiche destinate alla ridefinizione delle strategie organizzative alla luce delle recenti acquisizioni in materia di gestione aziendale.
Alcune strategie preventive richiedono tempi di attuazione molto lunghi e l’impegno e il coordinamento tra strutture organizzative su livelli spesso distanti tra loro come, ad esempio, l’università e le aziende sanitarie. Ad esempio, molti studi hanno evidenziato che i primi anni di carriera professionale sono quelli a maggior rischio burn-out. Evidentemente, il contatto con la realtà lavorativa determina un ridimensionamento delle aspettative e una disillusione rispetto a quanto ci si aspettava dalla professione. Per questi motivi, appaiono determinanti gli anni della formazione, che dovrebbero prevedere anche l’insegnamento di una metodologia di lavoro mirata a definire il ruolo professionale con tutti i suoi vantaggi e svantaggi. Di pari importanza risulta anche l’inserimento nell’attività professionale, che dovrebbe essere preceduto da un periodo di formazione specifica; da più parti è stata evidenziata l’importanza che può avere l’impatto iniziale nello svolgimento di qualsiasi professione e, in particolare, alcuni studi sul burn-out hanno messo in luce gli aspetti negativi che possono derivare dall’inserimento di un giovane laureato in reparti di prima linea con responsabilità non proporzionate all’esperienza. È quanto accade ai neoassunti in servizi in cui ci si trova improvvisamente a dover fronteggiare da soli situazioni di emergenza, senza la possibilità di un supporto da parte di colleghi più anziani e senza essere stati sufficientemente addestrati.
Per tali motivi, utilissimo sarebbe un programma di addestramento che preceda l’inserimento e che preveda successivamente una formazione continua, di supervisione dell’attività svolta e un’informazione costante sui programmi dell’azienda e sugli obiettivi da realizzare.
Alcuni autori, a tal proposito, prevedono due livelli d’azione all’interno dei programmi di formazione e prevenzione del burn-out: la struttura organizzativa e l’operatore, su cui intervenire in parallelo, attraverso l’integrazione degli interventi.
In tale ottica non si parlerebbe più di prevenzione del disagio, ma di promozione del benessere, prospettando il superamento della routine per proiettarsi in un’atmosfera in cui possano essere garantite al singolo professionista tutte quelle condizioni che lo sostengano e lo portino a fare nuove scoperte gratificanti sul versante professionale: la formulazione di obiettivi chiari e ben definiti; la piena autonomia personale; la supervisione continua del lavoro svolto; la verifica dei risultati raggiunti; la riformulazione periodica degli obiettivi.
Gli interventi dovrebbero articolarsi seguendo le linee della moderna psicologia che prevedono la valorizzazione dell’uomo e delle sue potenzialità.
Il caso: Intervento di Prevenzione al Burn-out per lo Staff del Reparto di Oncologia del Presidio Ospedaliero G. Da Procida di Salerno.
Come è stato fin qui riferito, gli interventi preventivi, per essere efficaci, devono includere sia una ristrutturazione dell’ambiente lavorativo, sia un’azione più specificatamente rivolta agli operatori.
Nel caso preso in analisi in questo lavoro, l’intervento nasce su richiesta del primario del reparto di oncologia, come supporto all’equipe. Non potendo intervenire direttamente sull’organizzazione, esso, si è aggiunto ad altri servizi già esistenti nella struttura ospedaliera (operati da un’associazione di volontariato per le cure palliative) ed è stato fatto seguire da un nuovo progetto rivolto ai pazienti e ai familiari (uno sportello d’ascolto e di sostegno psicologico gratuito).
Ciò ha permesso, seguendo un percorso più indiretto, di modificare in parte le condizioni strutturali e lavorative, dando così un nuovo impulso alla nascita di un servizio più integrato e rafforzando i fattori protettivi personali e del gruppo di lavoro. L’integrazione degli operatori funziona molto bene, caratterizzata dalla presenza di una comunicazione circolare tra volontari, equipe socio-sanitaria e counselor, che, se da un lato dà vita ad un intervento che si affianca al lavoro degli operatori, migliorando la qualità della vita dei malati e delle loro famiglie, dall’altro, non meno importante, fornisce sollievo all’equipe stessa del reparto dal “caricarsi troppo” del paziente e della sua sofferenza emozionale.
Per meglio strutturare l' intervento di prevenzione e di sostegno e pianificare azioni specifiche il più possibile rispondenti alle esigenze del gruppo, ho messo a punto un questionario che ho denominato “Questionario per la valutazione della soddisfazione lavorativa”. Il questionario è composto da 38 item, che consentono di rilevare informazioni sul gruppo all’interno di quattro macro aree:
- Tipologia e organizzazione del lavoro: aspetti tecnici come mansioni, carico di lavoro, autonomia decisionale, riconoscimento economico.
- Aspettative nei confronti del lavoro: significato personale e sociale del lavoro, aspettative eccessive, consacrazione al lavoro, lavoro come sostituto della vita sociale, lavoro come unica area da cui mutuare la stima di sé.
- Senso di appartenenza e coesione del gruppo: sostegno, partecipazione ed unione del gruppo.
- Aspetti emotivi e psicologici connessi alla professione: capacità di riconoscere e controllare i propri ed altrui stati d’animo, ascolto e comunicazione, problem solving e senso di autoefficacia.
La prima somministrazione è stata effettuata all’inizio dell’intervento (marzo 2007), la seconda a metà percorso (luglio 2007) e la terza a termine del progetto (dicembre 2007).
Descrizione del gruppo e Obiettivi dell’Intervento
Il gruppo, con cui ho avuto il piacere e l’onore di lavorare in tutti questi mesi è quello dell’equipe medico-sanitaria operante nel reparto di oncologia dell’ospedale G. Da Procida di Salerno. Dieci validi professionisti, e soprattutto dieci splendide persone: il primario ed altri due medici; cinque infermieri; e due operatori socio-sanitari.
Gli incontri, su richiesta dello stesso primario, nascono con il fine di fornire sostegno psicologico a questi operatori, costantemente sottoposti, per le caratteristiche del lavoro che svolgono, a stress e ad un carico emotivo elevatissimi, intervenendo, in tal modo, in maniera preventiva nei confronti di quella vera e propria sindrome da stress lavorativo, ormai comunemente nota come “burn-out”, e dei suoi effetti dannosi, primo fra tutti l’errore professionale.
L’intervento ha previsto la costituzione di incontri di sostegno settimanali di due ore ciascuno con tutta l’equipe socio-sanitaria al completo, primario compreso, per la durata di un anno circa.
Di tanto in tanto, sempre su proposta del primario, ho condotto delle osservazioni del gruppo nel suo contesto di lavoro, che mi hanno permesso di rilevare punti di forza e punti di debolezza organizzativi e costitutivi delle attività e di comprendere meglio alcune dinamiche tipiche dei membri del gruppo. Altre volte mi è stato possibile fare colloqui individuali, in modi più o meno formali, con il primario o con gli altri operatori, che sono stati ugualmente illuminanti e utili ai fini dell’intervento.
In definitiva, sulla base dei risultati ottenuti alla prima somministrazione del questionario e delle osservazioni effettuate, si è cercato di rendere l’approccio delle strategie d’azione il più possibile globale, tenendo, dunque, ben presenti tutti i fattori ambientali/lavorativi, individuali e relazionali.
Dal punto di vista dei fattori organizzativi, si è potuto intervenire solo sugli aspetti relativi ai ruoli, ai compiti e alla pianificazione del lavoro con l’obiettivo di facilitare la chiarezza delle mansioni, una giusta distribuzione del carico di lavoro secondo le effettive capacità personali, autonomia decisionale e risoluzione dei problemi lavorativi che di volta in volta si presentano, con la piena conoscenza e consapevolezza dei limiti che caratterizzano il servizio (poco denaro, poca conoscenza, scelte difficili…).
Altro obiettivo importante ai fini della prevenzione del burn-out che è sembrato opportuno porsi è stata la graduale e progressiva modificazione delle aspettative, in senso adattivo, da parte dei prestatori di assistenza e cura, in modo da favorire la definizione di obiettivi realistici nel proprio lavoro e stimolare l’individuazione dei propri limiti, riducendo in tal modo il più possibile le fonti di frustrazione.
Per quanto riguarda gli aspetti più prettamente psicologici, emotivi e relazionali, l’intervento si è concentrato su numerosi aspetti.
Innanzitutto si è focalizzato sull’obiettivo di migliorare la comunicazione tra le persone, incoraggiando la libera espressione, individuando pensieri irrazionali e controproducenti (come la paura di non piacere, di non risultare simpatici o di rovinare i rapporti con i colleghi), riducendone l’impatto e favorendo la risoluzione di conflitti interpersonali e il confronto di opinioni.
Stimolando, poi, un’atmosfera di comprensione e di collaborazione di gruppo ci si è posti l’obiettivo di facilitare il consolidamento del senso di coesione e di unione al fine di favorire quel sostegno e supporto emotivo così importanti come moderatori dello stress e fattori di protezione dal burn-out.
Infine, l’era della salutogenesi, in cui non solo bisogna evitare le malattie, ma difendere e rafforzare la salute, impone a qualsiasi tipo di intervento e preventivo di incoraggiare lo sviluppo della consapevolezza del medico e di tutti gli operatori del settore, che oltre a rivolgere la loro attenzione al prossimo, hanno anche l’obbligo personale di tutelare se stessi. Pertanto, un altro importante obiettivo che questo intervento si è posto è stato quello di promuovere livelli di consapevolezza di sé, delle proprie emozioni e soddisfazioni, che permettano agli operatori di riconoscere le motivazioni personali nella scelta della professione, di comprendere i propri limiti ai bisogni e alle richieste di pazienti, familiari, colleghi e superiori, di poter chiedere aiuto o delegare compiti troppo pesanti emotivamente, di saper mettere dei “confini” alla propria disponibilità e programmare attività piacevoli o rilassanti nel proprio tempo libero dal lavoro.
Un ulteriore obiettivo dell’intervento era quello di sostenere la leadership del primario, potenziando i suoi numerosi e importantissimi punti di forza, quali l’immenso rispetto per i suoi collaboratori, la sua tendenza a coinvolgere tutti gli operatori nelle decisioni da prendere, la sua disponibilità, la sua passione per il lavoro e per le persone; e, al tempo stesso, incoraggiandone la consapevolezza dei punti deboli e stimolandone il miglioramento.
I Risultati
Passiamo ora all’analisi dei risultati ottenuti al questionario sulla soddisfazione lavorativa. Sono state raccolte le risposte dei dieci operatori alle tre somministrazioni del questionario e ne sono state calcolate le medie, prima singolarmente per ciascuna risposta del test, poi raggruppate nelle quattro macro aree che esso misura.
Per brevità, qui verranno presentati i dati delle medie ottenute dal gruppo alle tre somministrazioni (Tab. 1 e Fig. 1).
Nell’osservazione delle tabelle e dei grafici si tenga conto di due elementi:
- È stato inserito il segno meno (-), per la presenza di domande formulate in negativo, per le quali ci si attende che un miglioramento corrisponda ad una diminuzione dei valori.
- Le quattro macro aree osservate possiedono range di risposta variabile, con valori minimi e massimi diversi (indicati nella colonna “Range Medie”).
Tab. 1 – Medie parziali | ||||
Medie Test 1 | Medie Test 2 | Medie Test 3 | Range Medie | |
Appartenenza e coesione | 1,41 | 1,58 | 1,66 | (-0.5≤X≤2.5) |
Aspettative nei confronti del lavoro | -1,16 | -1,06 | -1,11 | (-2.75≤X≤0.25) |
Tipologia e organizzazione del lavoro | 0,16 | 0,27 | 0,47 | (-1.85≤X≤1.14) |
Aspetti emotivi e psicologici | -0,66 | -0,61 | -0,59 | (-2.9≤X≤0.11) |
I risultati mostrano come nel complesso tutte e quattro le aree individuate, già precedentemente all’inizio del progetto, fossero presenti in una buona misura e come, a distanza di quattro mesi, i valori sono tutti migliorati, sebbene con andamento diverso, mostrando un significativo miglioramento del senso di appartenenza e coesione del gruppo e un buon cambiamento nella percezione degli aspetti più pratici del lavoro. Un progresso più moderato, invece, si è verificato sia nell’area degli aspetti emotivi e psicologici connessi alla professione, sia nelle aspettative individuali nei confronti del proprio lavoro, che addirittura, dopo un iniziale miglioramento, sembra ritornare ai livelli della prima somministrazione.
La Figura 2, relativa alla variabilità individuale, confronta le risposte di ciascun membro del gruppo alle tre somministrazioni per valutare come sono cambiate le percezioni e gli atteggiamenti di ognuno nel corso del tempo.
Nel complesso, i risultati dimostrano che per il 50% dei membri del gruppo (soggetti A, D, G, H, L) le risposte al questionario, e dunque le variabili prese in considerazione dal questionario, sono migliorate, mentre risultano essere decisamente peggiorate rispetto alla situazione iniziale solo per due persone su dieci (soggetti C e I). Condizione particolare risulta quella rappresentata dal 30% dei membri del gruppo, secondo cui la soddisfazione lavorativa sarebbe migliorata rispetto alla situazione di partenza, ma peggiorata rispetto alla seconda somministrazione del questionario (soggetti B, E e F).
Suddividendo i risultati per le quattro aree identificate, emerge che i cambiamenti più significativi, ancora una volta, riguardano il senso di appartenenza e la coesione del gruppo, che risulta essere migliorata o tutt’al più invariata rispetto alle condizioni iniziali, ma mai peggiorata (Fig. 3).
In buona parte migliorati (per il 60%) rispetto alle condizioni iniziali risultano gli aspetti emotivi e psicologici connessi alla professione (Fig. 6) e la percezione circa l’organizzazione e la tipologia del lavoro (Fig. 5). Un progresso meno significativo si rileva, invece, circa le aspettative nei confronti del lavoro (Fig. 4).
Osservazioni Finali
Sulla base delle osservazioni effettuate e dei risultati ottenuti al questionario possiamo orientarci ora verso l’epilogo di tutto il lavoro fin qui presentato.
Innanzitutto si deve riconoscere che, tra gli obiettivi che il progetto di prevenzione al burn-out si proponeva, sono stati raggiunti notevoli risultati soprattutto nell’ambito della coesione del gruppo. Gli operatori si sentono più uniti tra loro ed è aumentata la partecipazione attiva ai processi decisionali dell’equipe di lavoro. Tale condizione ha influito positivamente sullo sviluppo di una maggiore conoscenza di sé e del proprio comportamento e sulla capacità di organizzare le proprie relazioni sociali, favorendo la manifestazione di comportamenti di sostegno e rassicurazione nei confronti degli altri. In tal senso, dunque, è stato raggiunto ciò che viene definito come un obiettivo del gruppo (Galimberti, 1992), ossia un livello di sicurezza, garantito dall’appartenenza al gruppo, che consente con la sua protezione di rischiare senza troppa ansia anche in terreni mai esperiti.
Migliorata risulta anche la comunicazione utilizzata, che ha acquisito ora una modalità più diretta, grazie alla quale, dopo aver individuato e ridotto l’impatto di pensieri irrazionali (come ad esempio, il ritenere che manifestare le proprie personali e diverse opinioni possa produrre un conflitto distruttivo che danneggi le relazioni interpersonali), è stato possibile favorire un’espressione di sé ed un confronto più liberi.
Altri cambiamenti positivi si rilevano circa la percezione degli aspetti più pratici dell’organizzazione e della tipologia del lavoro e ciò anche in conseguenza del fatto che le riunioni del venerdì sono state spesso utilizzate proprio per discutere di difficoltà più tecniche e per la risoluzione di problematiche lavorative ed organizzative.
Meno significativi sono stati i cambiamenti riscontrati circa le aspettative connesse al lavoro. Inoltre, il grafico sulla variabilità individuale esprime una forte discordanza di opinione al riguardo tra i membri del gruppo. Tale situazione, letta semplicemente attraverso i numeri non fornisce elementi su cui concentrarsi per comprenderne le ragioni, ma può essere più facilmente spiegata attraverso la lettura di quanto emerso durante gli incontri settimanali. Il gruppo, infatti, pur dimostrando di possedere una buona vita di relazione e familiare, di saper “staccare la spina” e di riuscire ad organizzare il tempo libero in attività piacevoli, che sono fattori fortemente preventivi nei confronti della sindrome da stress lavorativo, manifesta una difficoltà a prendere “le giuste distanze” dai pazienti, dai familiari e anche dai colleghi, non riuscendo a porre dei limiti alle richieste eccessive che da questi provengono. Questa, inoltre, è, altresì, una grande difficoltà del primario, che, primo fra tutti, manifesta un maggior carico di stress legato anche a questo aspetto così altruistico da una parte, ma altrettanto deleterio per se stessi dall’altra.
Tale condizione, di certo, influenza anche i risultati circa gli aspetti emotivi e psicologici connessi alla professione, inficiando quella capacità di riconoscere i propri stati d’animo e il senso di autoefficacia, come descritto da Bandura, che tanto importanti sono per il raggiungimento di una soddisfazione lavorativa e personale e per la tutela della salute mentale del lavoratore. Più in particolare ci riferiamo con questi termini alla possibilità di individuare obiettivi e aspettative realistici e alla conoscenza e gestione delle proprie capacità e dei propri limiti. Tutto ciò implica la capacità di affrontare compiti difficili, guardando ad essi come sfide da vincere e non come pericoli da evitare, mantenendo costantemente alto l’impegno di fronte alle difficoltà, e di non spaventarsi di fronte agli insuccessi, recuperando la fiducia in se stessi.
In conclusione, possiamo dire che numerosi sono stati i progressi del gruppo che, tuttavia, ancora necessita di un supporto per migliorare queste aree così rilevanti sia in un’ottica di prevenzione dallo sviluppare patologie psico-sociali, sia in un’ottica più prettamente professionale, che implichi una maggiore soddisfazione del lavoratore, più impegno e, dunque, una qualità superiore del lavoro. Questi saranno gli obiettivi verso i quali procederà l’intervento nei prossimi mesi.
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